domenica 21 ottobre 2012

Presentazione libro. A Bitonto, 'Il naso del templare': dai medioevisti baresi 40 anni di monstra. Raffaele Licinio: "Non c'è storia che non abbia almeno un naso".


Oltre il senso della Storia, con 'Il naso del templare' (Caratteri mobili), di Franco Cardini e Raffaele Licinio, presentato nel Palazzo Antica via Appia di Bitonto, da Marino Pagano (giornalista), Vincenzo Fiore (Movimento La gente), Michele Abbaticchio (sindaco di Bitonto), Cosimo Pomarico (sindaco di Oria) e Rossana Gismondi (giornalista). All'incontro, organizzato da Movimento La Gente con la collaborazione dell'associazione Impuratus e dell'associazione 'La Macina', che hanno offerto costumanti, la prima, e un intermezzo musicale, la seconda, ha partecipato anche il coautore, Raffaele Licinio, professore di Storia medioevale all'Università di Bari.  Infatti, ad avere naso, fiuto, non sono solo i templari, che hanno addestrato i propri sensi per combattere in nome della fede in Cristo, ma anche gli storici, che delle loro gesta si occupano, perché avere naso, fiutare, significa, in senso figurato, seguire una pista o scoprire i fatti dietro alle apparenze, sospettare qualcosa, prevedere, captare o percepire ciò che ci sta dietro. Raffaele Licinio, durante l’incontro, ha sfatato i luoghi comuni, gli errori, le idee fasulle, che circolano sul Medioevo, i monstra, com’egli  gli definisce, recuperando il senso originario del termine e legandolo al rapporto tra l’uomo e l’ignoto. E’ in questo rapporto dialettico, che entra in gioco lo storico con la sua metodologia, con la sua deontologia. Il dovere di chi scrive la storia  - per Licinio – è la ricerca della verità , dei fatti, attraverso fonti accertate, non la dissertazione pour parler dei programmi televisivi, come ‘Voyager’, o delle pubblicità che utilizzano simboli medioevali per indurre desideri e far sognare. In quella del ‘Mulino Bianco’, per riportare uno dei tanti esempi elencati dall’autore, la macina usata è per le olive non per il grano. “Compito morale dello storico – ha affermato –  è cercare i fatti anche quando sembrano non dare risposte, non avere senso, perché la storiografia può non averlo, non la Storia”. “La Storia – sostiene – ha sempre un senso”. Lo storico, quindi, deve avere necessariamente naso, capacità di avere intuito, giudizio e competenza, prontezza di accorgersi subito di qualcosa al primo fiuto, ossia subito, immediatamente. Anche nella Sacra Scrittura si parla dell’addestramento dell’uso dei sensi, contrapponendo gli sprovveduti alle persone spiritualmente mature. L’apostolo Paolo esercitò tale fiuto spirituale, quando si accorse delle subdole manovre dei giudaizzanti: "Dei falsi fratelli, introdottisi di nascosto,… s’erano insinuati fra noi per spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, con l’intenzione di renderci schiavi" (Galati 2,3), ossia sotto il giogo della legge mosaica. Anche l’apostolo Giovanni esortò ad avere fiuto: “Diletti, non crediate a ogni spirito, ma provate gli spiriti per sapere se sono da Dio; perché molti falsi profeti sono usciti fuori nel mondo” (1 Gv 4,1). Il Signore lodò il conduttore della chiesa di Efeso, tra altre cose, per questi motivi: “Tu non puoi sopportare i malvagi e hai messo alla prova quelli, che si chiamano apostoli e non lo sono, e li hai trovati bugiardi” (Apocalisse 2,2). Anche lo storico, dunque, deve avere fede per cercare la verità, fede nella storia innanzitutto, una religione laica, perché, per parafrasare Benedetto Croce, la religione è l’etica conforme a una visione del mondo.
 “Nel 1983, a San Gimignano – ha raccontato Licinio – durante un convegno con Musca e Umberto Eco, intitolato ‘Il sogno del Medioevo’, argomentando sul revival del Medioevo nella cultura contemporanea, Eco ha individuato dieci sogni di Medioevo, dieci modi di riviverlo. Anche il cinema ha contribuito a  far nascere un Medioevo visto dal basso: nel 1966, fu girato il film ‘L’armata Brancaleone’. Ma, quelle che circolano maggiormente, sono idee fasulle di Medioevo, legate al Medioevo celtico. I leghisti padani hanno inventato un personaggio che non è mai esistito. Il Medioevo delle identità è falso, esistono invece le identità e le province sono identità negate quando inventano accorpamenti”. A proporre un’idea di Medioevo associata al turismo emozionale i sindaci di Oria e Bitonto: “ Sulla cultura medioevale stiamo costruendo il nostro futuro. La festa dei S. Medici richiama pellegrini, è la terza in Puglia, i nostri sbandieratori sono campioni d’Italia di serie A, sono ragazzi tolti alla strada – ha detto Pomarico – Le appertenenze territoriali, le identità, oggi bisogna costruirle attraverso questi eventi, attraverso il turismo emozionale di qualità, non del mordi e fuggi”. “Lo stesso che offrivano le masserie  nel Medioevo” – ha aggiunto e precisato Licinio. Un Medioevo anticipatore dei tempi, è stato presentato da Rossana Gismondi che, parlando di strutture ricettive per viaggiatori e pellegrini, ha messo in evidenza come ostelli, locande, taverne e masserie fossero luoghi di comunicazione non meno efficaci dell’attuale Internet (vedi www.rossanagismondi.it). L'evento è stato anche  occasione ideale per ricordare Mario Gismondi, giornalista e maestro di giornalismo scomparso il 12 aprile 2012, distintosi in Puglia e nel mondo per la sua instancabile attività. A menzionarlo Vincenzo Fiore, suo allievo, e Pasquale Cordasco, professore di storia all'Università di Bari 'Aldo Moro'.
da sinistra: Marino Pagano, Michele Abbaticchio, Cosimo Pomarico, Raffaele Licinio, Rossana Gismondi
                                                                                                            Angela Milella

sabato 28 aprile 2012

Culture periferiche. Alcune tappe di un lungo viaggio

Stazione San Severo (Fg)
Vieste (Fg)



Porto Rodi Garganico (Fg)



Culture periferiche, mafia e istruzione: sfida ai dirigenti della scuola pubblica italiana


  1. Piccolo-borghesi mafiosi: sono I burocrati della scuola pubblica italiana. I dipendenti che, quando non fanno abuso omettono atti d’ufficio, che per rilasciare documenti amministrativi assumono atteggiamenti di insofferenza e rifiuto, che concedono certificati come se fosse un favore riservato agli amici, che non conoscono il senso del dovere e del servizio verso lo Stato e provano ostilità nei confronti di quanto dovrebbe garantire trasparenza e legalità. Arrivisti disposti a tutto, spalleggiati da partiti, sindacati e associazioni varie, da padrini, giungono avidi, saccenti e arroganti a ricoprire incarichi e ad occupare poltrone, riproducendo nella propria funzione i meccanismi del potere che li ha generati: creano lobby e potentati, spartiscono privilegi e ricchezze, denaro pubblico, amministrano il bene comune come un feudo. Personalismi, nepotismo, corruzione, omertà sono questi i vizi della scuola pubblica italiana, gli stessi del Paese. E quanto più le realtà sono provinciali tanto più si acutizzano. Coercizione e mobbing vengono riservati ai pochi che non si allineano, che non mollano, che non ci stanno.
    Se questa è l’ordinaria amministrazione, come vengono gestite le risorse extra?
    Fondi strutturali europei, Pon e Fesr, per lo sviluppo e per l’apprendimento sono il carro delle delizie per quanti fanno della scuola pubblica il proprio feudo. Ed ecco fiorire bandi e avvisi ad personam, che non vengono resi pubblici nemmeno sui siti degli Uffici scolastici regionali e provinciali; incarichi assegnati a parenti e compagni; curriculum e carriere costruite all’occorrenza; forme di ostruzionismo per quanti hanno titoli e abilità, da mettere in campo per la collettività.
    Cosa insegna alle nuove generazioni un sistema di siffatta sostanza?
    Ai tragici ragazzi viene inculcata la mentalità edonistica, omologante, strisciante, la mentalità mafiosa piccolo-borghese, che ha avvalorato la vita attraverso i propri beni di consumo, che ha reso la cultura stessa un bene di consumo, che ha distrutto tutte le culture periferiche dalle quali era assicurata una vita libera. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazione e di istruzione.
    Sclerosi delle facoltà intellettuali e morali e frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai caratteristiche collettive.
    La scuola con i mass media ha corrotto l’Italia, io conosco i nomi, io conosco i fatti di cui si sono resi colpevoli.
    Angela Milella

martedì 10 aprile 2012

Il romanzo postumo di Gina Labriola, 'Sherazade lucana'


“Un libro nato da un paniere di ostriche”. Gina Labriola come Sherazade, nell’e-book postumo, una biografia romanzata, completata con la collaborazione dei figli Alessio, Dario e Valerio, poco prima di spegnersi e disperdere le sue ceneri tra le valli della Provenza.  Il titolo “Sherazade lucana … ed altre storie di scarpe, lune, cuori spinati, sassi, zanzare…” (Index) è stato discusso e scelto con l’autrice, quale giusto riferimento all’Iran e alla Lucania visti attraverso il velo della mitica affabulatrice. Le fotografie, selezionate  con Gina, sono di Dario Caruso. Esse non vogliono illustrare eventi o luoghi, ma essere liberamente evocatrici della sua poetica. Un’autobiografia reinventata, un’opera che, sentendo l’avvicinarsi della fine, la scrittrice aveva desiderato ultimare e pubblicare. Un gioco di specchi ripreso dalla tradizione poetica iraniana, ma anche architettonica, attraverso cui la realtà appare frantumata e riflessa, quasi ad esprimere la complessità, l'imprevedibilità e l'inafferrabilità dell'anima di un paese, in cui tutto appare un miraggio. “Se alla base della civiltà occidentale vi è la logica di Aristotele imperniata sul principio di non contraddizione, per cui ogni cosa è quello che è e non può essere il suo contrario, l'approccio iraniano al contrario non è logico ma poetico, mitico, cangiante, favoloso. Gina è stata sedotta dall'Iran che corrispondeva stranamente alla sua maniera di sentire e di stare nel mondo, al punto di intitolare ‘Alveare di specchi’ la sua raccolta di poesie del 1974 e ‘In uno specchio la fenice’ quella del 1980. Eppure apparentemente nulla di più distante dalla realtà lucana o pugliese che il paese delle mille ed una notte”, spiega il marito Fernando Caruso, nella prefazione al libro. Fu lui a portarla in Persia, dove incontrò Farah Di-ba, regina, moglie dello Sciàh Reza Pahlevì. Nata a Chiaromonte nel 1931, Gina Labriola ha vissuto la maggior parte della sua vita lontano dalla propria terra, per questo si considerava esiliata: “Per uno strano scherzo della donna che buttò l’acqua con cui l’avevano lavata appena nata fuori dal portone”. Gina era fatalista. Un’esiliata stanziale, visto che ovunque, in ogni parte del mondo, ha sempre trovato analogie con la sua terra, per visi, sguardi, espressioni, usanze, costumi e persino per  narrazioni orali. Una prosa piana e scorrevole racconta, tra giochi metaletterari, personaggi, storie e favole, a Chiaromonte come a Theran, a Marsiglia, in Belgio, a Parigi. “Ma è poi veramente un libro o è la metamorfosi di un’ostrica che viaggiava in treno?”, si domanda nel prologo. “Vivevo a Parigi, ma andavo a lavorare in Bretagna. Ero pendolare,  abbonata alla SNCF (Société Nationale des Chemins de fer Français) , - racconta l’autrice -  incontravo spesso donne che venivano da Cancale, la cittadina dove si trovano le migliori ostriche del mondo”. Scritto in viaggio, il romanzo è un lungo racconto rivolto a Max, un uomo incontrato quotidianamente in treno, che inserendosi nell’intreccio dona un carattere arcano alla narrazione: “Era sempre carico di libri e trafficava con una cuffia e con un cestino che pareva quello della merenda, il cui contenuto misterioso indovinai più tardi. Smilzo ed elegante, non faceva sfoggio del suo fascino; aveva una voce suadente e mani lunghe e sottili. Non aveva età. Né bello né brutto. Spesso era ironico, ma con garbo. Di sè raccontava poco, ma prometteva. Ebbe inizio una lunga storia. Viaggio dopo viaggio, rispettando o no la cronologia, gli raccontai la mia vita. Vera? Non lo so più neanche io”. Poetessa e affabulatrice, attraverso il filtro della sua arte tutto diventa mito. Tutto si trasfigura e si perde nel tempo più remoto, col terrore che le immagini diventino illusioni.
“Capace di intuire il significato misterioso e mitico della terra lucana da cui trarrà la dolorosa sensibilità, la malinconia e la fuga nell'immaginario, ma anche scatti di allegria e di umorismo” – racconta Fernando Caruso - Gina Labriola  tesse e inventa affinità sotterranee tra il mondo magico contadino svelato da Ernesto de Martino e  Carlo Levi e la grande tradizione poetica della millenaria civiltà persiana: “Cantastorie ambulante, trasportavo dall’Est all’Ovest, e dall’Ovest all’Est, frammenti di vita quotidiana che, attraversando monti e mari, incantavano sempre come esotiche avventure. Ero una Scerazade a double face, d’andata e ritorno. – riferisce di sé, nel capitolo ‘Mille notti meno una’, Gina - Imbrogliavo, da una parte, i lettori italiani avidi di pettegolezzi regali, dall’altra incantavo, almeno finché mi fu concesso, marito, cognate, cugine e colleghe mogli, raccontando l’Italia,il Quarantotto, il Sessantotto, Garibaldi ed Enrico Mattei, il Papa e il Colosseo”.
Solo di fronte al “femminismo poetico” di Elahè Firouzadèh, protagonista del tredicesimo racconto, la scrittrice perde la funzione di narratrice, osservandola mentre dipingeva, preparava il tè o discorreva con gli amici: “Vedi, mi diceva, le donne possono vincere. Devono avere coraggio, più di quanto è necessario agli uomini, ma alla fine, possono farcela. Come Scerazade, come Golandàn” […] “E’ una storia che tutte le bambine dovrebbero conoscere, diceva Elahè. Golandàn era la schiava turca di Bahràm, un re presuntuoso come sono spesso i re e anche qualche volta i comuni mortali”. “E’ solo una questione di esercizio e di abitudine”, affermava, sfidando il sovrano, rifiutandosi di adularlo per la sua abilità di cacciatore, che la lasciava indifferente. Fu condannata a morte, ma salvata e nascosta da un cortigiano, in un suo castello, nel quale Golandàn si dedicò ad un esercizio quanto meno insolito e bizzarro: portava un toro sulle spalle, prima piccolino, appena nato, poi sempre più grosso, su e giù per le scale. Poi, dopo qualche tempo, il cortigiano confessa al re di aver salvato la turca indisponente e lo fa assistere allo straordinario esercizio col toro sulle spalle su e giù per le scale. Il re riconosce il torto, chiede scusa e si riprende la turca, vinto dalla costanza di una ragazza”.
Forse, Elahè altro non è che l’alter ego di Payandèh Shahandèh, docente di Belle Arti all’Università di Teheran che, nella prefazione alla raccolta ‘Poesia su seta’ (Edizioni Racioppi), intitolata “Dall’Iran a Parigi su ali di seta”, ha scritto: “Il mio sodalizio con Gina Labriola cominciò più di vent’anni fa, in Iran, quando lei collaborava all’Istituto Italiano di Cultura di Teheran, e io insegnavo Belle Arti all’Università. […] In Iran, oltre alla ben nota tradizione delle miniature, che illustrano testi poetici, come quelli di Omar Khayàm, esiste un’altra interessante forma di espressione artistica: quella dei khalàm-khàr (lavoro con l’inchiostro). Sono tele dipinte, che illustrano favole tratte dai poemi di Nezamì, o di Ferdowsi; talvolta, invece fanno rivivere leggende popolari; un tempo servivano ai ghessegù, ai cantastorie, che li usavano per spiegare le loro narrazioni nelle piazze o nelle khavè-khanè (case del caffè), dove ci si poteva riunire per ascoltare storie. Gina in Iran cercava e comprava tele dipinte, ma non per una fredda mania di collezionista: traduceva le storie che vi erano illustrate, e se ne serviva per le sue narrazioni. […] Anche lei ha seguito per anni corsi di pittura su seta […] Non per seguire la moda, del resto superata, della poesia visiva o il grafismo, ma per rendere palpabili, concreti, i suoi raffinatissimi versi. Come nei kimono giapponesi, o nei sari indiani, vuole che i colori intrecciati alle parole possano muoversi, avvolgere, parlare, ricordare”.
Angela Milella

mercoledì 25 gennaio 2012

Una scuola per 'Menti digitali', in Italia si tenta la sperimentazione


La scuola in web? Fallisce negli States, ma in Italia si tenta la sperimentazione. Ai numerosi volumi editi  per i docenti della web generation, si aggiunge il libro ‘Menti digitali’ (Stilo Editrice), di Tommaso Montefusco. Un contributo che guarda con positività alle nuove tecnologie per la didattica, nonostante il flop degli studenti on-line, che in altri paesi restano indietro in matematica e faticano nella lettura, appellandosi alle teorie costruttiviste, secondo cui è l’ambiente a condizionare gli individui e a innescare il cambiamento. La Lim e il laboratorio virtuale di scienze in aula modificheranno il modo di apprendere e di insegnare. E’ questa la scuola italiana del futuro descritta nel libro di Montefusco, nonostante il bilancio di queste scuole, senza banchi e lavagne, destinate soprattutto ai poveri delle zone rurali, sia devastante e secondo uno studio del ‘National Education Policy Center’ il 60% dei cyber-studenti è indietro in matematica rispetto ai coetanei delle scuole tradizionali e il 50% fatica nella lettura, un terzo non si diploma in tempo e moltissimi si ritirano dopo solo pochi mesi dall’iscrizione. Anche in Italia, è prospettato in diversi studi, gli insegnanti seguiranno gli studenti attraverso piattaforme e-learning e i ragazzi metteranno a disposizione dei docenti le proprie competenze, in un processo di insegnamento-apprendimento paritario: un sistema già utilizzato nei paesi scandinavi e anglosassoni. Ma, di fronte all’inarrestabile boom tecnologico, il libro cartaceo resterà in circolazione ancora per qualche decennio e compito degli insegnanti sarà “coniugare la velocità della pagina web con la lentezza della pagina scritta”, almeno fin quando il processo binario non verrà sostituito dalla logica quantistica e le operazioni saranno ulteriormente moltiplicate per milioni di volte. La vera svolta si avrà con la nascita di supporti digitali multimediali adatti al  passaggio dalla carta al bit, quali non sono gli attuali lettori e-book e l’I-pad. Al contrario,   nuova frontiera per la scuola sembra già l’I-cloud finlandese, che consente ai ragazzi di essere interconnessi 24 ore su 24. Sarà il moby-learning  ad abolire il luogo fisico dell’apprendimento. Una prima sperimentazione del tablet per la scuola elementare è stata fatta nella Corea del Sud, ma ancora una volta, per dimostrare che  la tecnologia non può diventare il fine del processo educativo, ma al massimo può essere uno degli strumenti per rendere più ludica la meditazione, la riflessione, l’apprendimento. “Sarà il mutamento antropologico in atto – conclude Montefusco – a inventare le capacità di un sapere nuovo nei nativi del web”, fermo restando che vengano investite risorse per la formazione continua dei docenti italiani, costretti ad aggiornarsi con risorse proprie, a fronte di una spesa del Miur pari allo 0,6% rispetto al 2% della media europea.
Angela Milella

domenica 16 ottobre 2011

Una vita da giornalista. Alla Biblioteca di Modugno (Ba) 900 volumi di Mario Gismondi

Leggere per vivere. Alimento della giovinezza e gioia della terza età: sono i libri, per Mario Gismondi, storico giornalista della nostra regione nonché fondatore del quotidiano ‘Puglia’, felice di donare un’ampia raccolta dei suoi volumi, appassionatamente e gelosamente custoditi per anni, alla biblioteca comunale di Modugno.  Un’iniziativa voluta dalla figlia Rossana e organizzata dalla redazione dello snello e battagliero tabloid, in collaborazione con il Comune di Modugno, per promuovere il libro e la lettura. Dal 25 ottobre, il palacultura ‘Carlo Perrone’ ospiterà novecento libri dello scrittore e maestro di professione,  modugnese per parte di madre. I  titoli,  riordinati per genere e autore, sono stati  raccolti  nel catalogo ‘Il fondo Gismondi. Mario Gismondi, una vita da giornalista’ realizzato  da  Angela Milella. “Il livello di civiltà di una comunità si misura soprattutto dall’attenzione che ripone nella cultura, nei giovani e nella memoria – ha scritto, in una nota, il sindaco Domenico Gatti. Tramandare il sapere attraverso le generazioni contribuisce, in maniera significativa, a salvaguardare l’identità di una comunità”. Saranno i giovani i maggiori fruitori del fondo, perché sono loro che quotidianamente si recano in biblioteca, saranno loro ad abitare un luogo del sapere che vuole essere di stimolo all’esercizio della riflessione, alla pratica della scrittura, alla condivisione della conoscenza. “Non esiste un vascello veloce come un libro, per portarci in terre lontane, né corsieri come una pagina di poesia che s’impenna”, scriveva Emily Dickinson e, tra le opere di Mario Gismondi, non mancano reportage di viaggi in luoghi esotici, dal Giappone alla Corea, al Messico. Uomo colto e intelligente, Gismondi, con la sua attività giornalistica e i suoi  intramontabili libri, ha continuamente promosso ed esercitato l’attenzione per la cultura, allevando giovani e formandoli al giornalismo, come con lui la bisnonna Domenica, donandogli libri e infondendogli amore per la lettura. Con questa donazione, nel mese dedicato al libro e alla lettura, nel mese di ‘Ottobre, piovono libri’, iniziativa promossa dal Ministero per i Beni e le Attività culturali, prosegue la sua opera di formatore ed educatore anche verso chi non avrà la fortuna di conoscerlo. L’auspicio è che l’incantesimo possa ripetersi ogni volta che un giovane decida di sfogliare le pagine di questi volumi, non ancora troppo vecchi, perchè il rituale  non si compia.

domenica 2 ottobre 2011

Moderna, tormentata e combattiva: è Elettra la donna del XXI secolo

Elettra, donna del Novecento. Secondo uno studio condotto
da Maria Evelina Santoro, ricercatrice dell’Università degli 
studi di Foggia, intitolato ‘Elettra. Ricezione e fortuna
 nella cultura tedesca’ (Levante editori), il Secolo breve 
sembra essere stato il più adatto ad accogliere e a rielaborare
 la figura di Elettra,eroina forte e ferina, ma anche fragile e capace di 
grandi sentimenti.Perché, rotti gli argini della rassegnazione, in quest’epoca,
 si è dato libero sfogo a sentimenti di disperazione, alla violenza, 
ma anche alla volontà di sperare nella felicità e nel cambiamento, 
che la figura di Elettra rappresenta. Donna moderna, tormentata, 
ma sempre combattiva e libera, non è un caso che 
a  rielaborarne meglio il mito, nei suoi aspetti più veri,
 arcaici eppure modernissimi, sia stata l’opera di Hofmannsthal. 
L’ ‘Elektra’ apre il Novecento del Dacadentismo,del pessimismo, 
delle due Guerre mondiali. L’elaborazione mitica di Hofmannsthal,
 influenzata dal pensiero nietzschiano, parte dall’arcaico, 
per poi sganciarsi da esso e rendere la vicenda ancora più terribile,
 violenta, in un mondo senza dei, dove l’uomo è lasciato solo di fronte
 ai suoi errori e alle sue colpe. Per questo motivo viene introdotto 
il mitema della sua morte, preceduta da una danza dionisiaca, ossessiva,
 eccessiva, che catalizza tutta la violenza,simbolo ed espressione
 della gioia patologica della vendetta ma, allo stesso tempo, 
celebrazione di un rito funebre.  
Il ventesimo secolo non ha visto solo il ritorno in auge del mito e 
della mitologia, ma ne è stato quasi ossessionato, soprattutto 
nella cultura germanofona. 
Nelle successive elaborazioni, infatti, il mito di Elettra è stato ripreso, 
scomposto, ricomposto, modificato, isolato in alcuni mitemi, 
completato da altri, ma la storia è rimasta in sostanza sempre la stessa,
 illuminata da una luce diversa che, di volta in volta, ha messo 
in evidenza o oscurato alcuni aspetti, senza mai stravolgere davvero l’essenza 
più autentica che questo mito incarna: il dolore, la sete di vendetta, 
ma anche la speranza della felicità. 
Il tratto distintivo e comune alle opere della seconda metà del 
Novecento è l’utilizzo della tecnica decostruttivista. 
Il sovvertimento della struttura linguistica classica è il mezzo che gli autori 
hanno utilizzato per rendere il mito di Elettra funzionale all’espressione 
della speranza di cambiamento, della rivendicazione femminista,
 del rifiuto della violenza e della guerra, della resa e della morte.
Angela Milella